Reem Hajrajreh, cresciuta in un campo profughi, ha creato Women of the sun per salvare i giovani palestinesi dalla violenza. «Tocca a noi mamme cambiare le cose perciò lavoriamo con le madri ebree»
Appena varcata la soglia dell’ufficio in cima a un condominio anonimo di Betlemme, il profumo di vaniglia inonda le narici, inebriando l’olfatto. «È il premio per le quattro rampe di scale senza ascensore», scherzano Yasmine e Marwa mentre accolgono i visitatori. La luce intensa, che irrompe dai quattro finestroni, dilata lo spazio della stanza, facendola apparire enorme. «Scusate il disordine, ci siamo trasferite qui da un mese», aggiunge Marwa. In realtà, non c’è una cosa fuori posto. L’arredamento è semplice ma curato nei dettagli. Alle pareti ci sono disegni ad acquarello di fiori – «molti li ho fatti io, mi piace dipingere», dice Yasmine, quasi con imbarazzo – e ceramiche decorate. Qua e là, è raffigurato il “asfur al-shams” o “palestinian sundbird”, letteralmente “l’uccello del sole della Palestina”, meglio noto in Italia come nettarinia della Palestina, una sorta di passero dalle piume di colori sgargianti e il becco a punta che l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha adottato dal 2015 come simbolo nazionale. È anche l’emblema di Women of the sun, le “Donne del sole”. «Perché è come noi. Sembra fragile, ma resiste a tutto. E continua a cantare e a volare», afferma Reem Hajajreh presidente di quest’alleanza di migliaia di giovani, adulte, anziane che in Cisgiordania e a Gaza si batte per portare un raggio di luce nel buio della violenza dell’occupazione, del radicalismo della guerra. Per questo è neo-candidata al Nobel per la Pace. «Devono essere le donne a farlo, uscendo loro stesse dall’ombra dove troppo a lungo sono state confinate. Per 75 anni, gli uomini ci hanno imposto scelte che non hanno portato a nulla. È tempo di cambiare». Un percorso che la stessa Reem ha fatto in prima persona.